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Le ceneri e la terra da cui veniamo

Il 17 febbraio vivremo un rito che lo scorso anno ci è stato tolto, perché eravamo a inizio pandemia e la stretta clausura ci ha chiusi in casa senza poter andare a messa. Per quest’anno non cambia (per ora) la necessità della prudenza, ma almeno ci è concesso celebrare la messa.

La frase che sentiremo dal ministro, “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”, non è un invito alla paura ma alla vita responsabile, vivere da creature chiamate a spendere bene i giorni che ci vengono concessi. E’ un invito all’umiltà. Vorrei parlarvi di questa parola.

Dal termine latino humus, terra, viene la parola umiltà.

Dalla terra proviene tutto ciò che ci nutre, tutto ciò che la natura (spontaneamente e poi con il lavoro umano) ci offre per cibo e fa da materia per l’abitare sulla terra, appunto.

La stessa fibra del corpo umano è estratta da questa materia, la terra, ed è organizzata attorno a un progetto che si chiama “persona”. Questo è il miracolo della vita. Ma la vita dell’uomo è ancora più grande e più complessa rispetto a quella animale, perché c’è un progetto che rispecchia direttamente la vita di Dio: siamo a immagine sua e chiamati ad essere figli di Dio in Cristo. Per questo la vita umana è sacra.

Tuttavia su questa terra l’uomo non può prescindere dalla terra stessa: l’uomo deve amare la terra da cui proviene, deve anche custodirla e migliorarla, renderla abitabile per sé e chi viene dopo.

Il pericolo di non tener conto della terra, per un cristiano, è di cadere nello spiritualismo, cioè credere che la vita dello Spirito, importantissima e determinante, possa essere slegata dal fatto che siamo creati “dalla terra”. Contro questo pericolo da sempre la Chiesa propone come virtù da cercare e da vivere l’umiltà.

L’umiltà la impariamo da Cristo (“Spogliò se stesso assumendo la condizione umana”), da Maria (“Ha guardato la piccolezza della sua serva”), dai santi, dall’esperienza delle persone buone che abbiamo conosciuto. L’umiltà ce la dona Dio stesso, se la accettiamo come un dono buono (“Bonum mihi quia humiliasti me”, Sal 118,71), magari attraverso esperienze non gratificanti inizialmente. Dopo una partita persa l’allenatore esorta i suoi a diventare più umili.

Al contrario il tentatore, satana, ci dice che possiamo fare a meno di tener conto della nostra piccolezza e vivere una grandezza che ci costruiamo da soli, ci costruiamo un mondo che vada bene solo a noi. Ma il mondo è più grande, e l’esperienza del vivere ci fa toccare con mano quanto sia importante riprendere contatto con la natura, con gli altri e con noi stessi. Impariamo l'umiltà da tutto, anche dal male.

Il corona-virus di questo periodo non ha fatto altro che renderci più umili. Siamo fragili, esposti alla malattia, dipendenti gli uni dagli altri. Ma in questa fragilità c’è anche la nostra bravura: sappiamo trovare le risorse per rispondere con tutti gli accorgimenti a questo nuovo problema, sappiamo essere eroici nello stare vicini agli ammalati, sappiamo morire e accettare la morte dei nostri più cari, anche se ci costa veramente tanto. Sappiamo ricominciare, pur in tanta incertezza per il futuro.

In questo, sono convinto, il virus ci ha fatto diventare più umani (“Umani”, quest'ultima parola non deriva da humus ma le è molto vicina). 

Qui sta la vita dello Spirito, che è divina, ed è a partire dal riconoscere e accettare che cosa siamo e nello stesso tempo comprendere quanta forza Dio ci dà per essere a sua immagine, che ci rende capaci di stare dentro situazioni buie, di seguire una luce che ci rincuora ed è la promessa di una vita umana ancora bella. Una vita che ci è stata donata e che sempre ci rinnova, aderendo “umilmente” alla fede nel Cristo risorto. Un’esperienza di risurrezione continua, che ci fa rinascere dal basso (l’acqua del Battesimo, l’umile acqua direbbe san Francesco) e dall’alto (lo Spirito di Dio che viene come sole che sorge a visitare chi sta nelle tenebre). Questa esperienza si chiama Pasqua. Ed è ciò che vogliamo prepararci a vivere.

 

Don Claudio

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